Nella mostra di Giuseppe Nucci, le Glorie diventano soglia simbolica, rito di passaggio, materia incandescente che unisce i vivi e i morti nella luce di un fuoco collettivo. La macchina fotografica non documenta: evoca, attraversa, scava nella memoria della terra.
Siamo nel cuore del capetiembe, il “capodanno” contadino abruzzese che, ben prima del calendario liturgico, marcava la fine e l’inizio del ciclo vitale. Un tempo in cui si celebrava il raccolto e si evocavano gli antenati — in un dialogo profondo con l’aldilà, la natura e il destino umano. È il medesimo tempo di Halloween, con cui condivide radici precristiane, ma nel contesto montano e arcaico di Scanno assume tratti di pietra, fumo e silenzio.
I giovani che raccolgono i tronchi, li portano a spalla, li innalzano verso il cielo, non compiono solo un gesto rituale: diventano tramite tra generazioni, incarnano il passaggio all’età adulta come nei riti di iniziazione delle civiltà antiche. Il fuoco delle Glorie è catarsi, purificazione, promessa. Come nell’antica Roma il tirocinum fori marcava l'ingresso del giovane nella vita pubblica, così il partecipare alla costruzione delle Glorie diventa un atto di iniziazione, di radicamento e di conferma identitaria.
Il fuoco, che nella mitologia greca Prometeo rubò agli dèi per donarlo agli uomini, torna qui come simbolo di trasmissione: di forza, di cultura, di appartenenza. L’albero che alimenta la Gloria non è solo legna, ma axis mundi — ponte fra il cielo e la terra, fra generazioni che si tramandano, nel silenzio delle mani e nel bagliore delle fiamme, un linguaggio antico quanto il mito.
Le immagini di Nucci, intense, immersive, restituiscono questo tempo sospeso dove la comunità si riconosce attraverso il gesto condiviso. Nucci non documenta soltanto: interpreta, interroga, restituisce al rito il suo mistero. E ci ricorda che crescere, in fondo, è sempre un atto sacro. E che l'appartenenza non è una scelta, ma una chiamata della terra a cui si risponde con il corpo, il sudore, il fuoco.
Giada Triola