Barbara Cannizzaro. Io e le altre

  • Autore/Autrice: Barbara Cannizzaro
  • Curatore/Curatrice: Laura Fusco
  • Data Inizio: 24.11.2024
  • Data Fine: 15.12.2024
  • Dove: Canova22
  • Indirizzo: Via Antonio Canova, 22
  • Orari: tutti i giorni 10.30-20.00
  • Ingresso: libero
  • Tel. / Mob.: 06 23481237, 335 8420063
  • E-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
  • Descrizione Evento:

     

    Nell’ambito del Festival Close Up, e in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, Canova22 presenta la prima personale di Barbara Cannizzaro dal titolo “Io e le altre”, curata da Laura Fusco.

    La mostra all’Antica Fornace del Canova si sviluppa in tre ambienti e ripercorre, in tre differenti tappe, l’evoluzione di una ricerca durata oltre dieci anni. La selezione degli scatti ha interessato più cicli fotografici (Ritratti sbagliati, Non-conforme, Vite Imperfette, etc), dal suo primo approccio alla fotografia, che ha riguardato essenzialmente l’autoritratto come strumento di indagine introspettiva, all’esplorazione dell’universo femminile che ha coinvolto tante altre donne in un percorso di consapevolezza, accettazione ed emancipazione. La violenza di genere, nelle sue molteplici declinazioni e sfumature, è il campo di indagine che l’ha portata dall’IO al NOI, dal personale al sociale, facendole incontrare tante “sorelle” lungo la strada. Le cicatrici delle altre donne sono per Barbara i solchi da cui sradicare il male depositato dagli stereotipi, e da tutte le forme di aggressione verbali e fisiche.

    “Secondo una ricerca dell’Oms, negli ultimi anni, in Italia i disturbi alimentari sono cresciuti da 600mila casi a 3 milioni. Più del 90% delle persone affette da tali disturbi è donna con numeri drammatici di autolesionismo e tentativi di suicidio. L’abuso fisico, psicologico e sessuale è un problema sanitario che colpisce oltre il 35% delle donne in tutto il mondo. Dati che trovano conferma anche in Italia, dove una donna su tre, tra i 16 e i 70 anni, ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita. Sono quasi 7 milioni le donne vittime di maltrattamenti, nella maggior parte dei casi da parte di partner o ex compagni. È proprio per i suoi risvolti devastanti che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la violenza come «un problema di salute pubblica globale», uno dei principali fattori di rischio, di cattiva salute e di morte prematura per le donne e le ragazze.”

    PRIMA TAPPA> l’Io | L’Autoritratto

    Quando il mondo si rivela essere un luogo discriminante ed insicuro, le giovani donne vivono una profonda sofferenza e il desiderio di diventare invisibili. Barbara sin da giovanissima sperimenta sulla propria pelle la gamma dei disagi che trovano espressione nei disturbi dell’alimentazione, che usano il corpo come strumento di controllo e sfida. L’angoscia e la solitudine diventano sue compagne di viaggio, schiacciandola nell’angolo nascosto di una ferita che nessuno sguardo poteva penetrare, un muro che la separava dagli altri, dal mondo.

    Quando le regalano una macchina fotografica intuisce che quello strumento rappresenta per lei l’opportunità di scandagliare il suo vissuto, per far emergere il sommerso. L’arte ha il potere di dare voce alle inquietudini più profonde, di valorizzare l’esperienza individuale e restituire uno sguardo nuovo sulla realtà, per generare nuove narrazioni, far sbocciare nuove speranze. In particolare, l’autoritratto rappresenta un potente mediatore per esplorare le profondità psicologiche, un efficace mezzo per acquisire consapevolezza e accettazione di se stessi, un sistema per imparare a “vedersi” ed accedere all’inesprimibile. Puntando su di sé l’obiettivo Barbara ripercorre per immagini la sua storia, e attraverso la fotografia abbraccia la sfida analitica che praticherà sulla sua carne viva. Il corpo che percepiva come un guscio vuoto, quel corpo sbagliato che il mondo vorrebbe perfetto, ma condannato a non raggiungere mai né perfezione né felicità, diventa protagonista delle sue foto, teatro per la messa in scena di una metamorfosi. L’obiettivo lo ritrae nella sua crudezza, rannicchiato, raccolto, piegato, spesso di schiena, sembra nudo anche quando è vestito; il volto è nascosto, quasi sempre in ombra, oppure dissolto difronte allo specchio. È un lavoro claustrofobico, fatto di vuoti e di assenze, svolto nel chiuso di stanze desolate, spazi quotidiani quasi sempre senza luce, dove le sue fragilità diventano palpabili. Gradualmente questo lavoro l’accompagna fuori dall’isolamento, dalle spirali della sofferenza che spingevano il suo corpo sempre oltre il limite, aiutandola a riconciliarsi con il sé negato. A mano a mano la sua figura riaffiora alla luce, si amplifica, moltiplica e ricompone sotto i nostri occhi, lasciando emergere le conquiste, le riappropriazioni, le strade tracciate verso nuovi sentieri narrativi. L’obiettivo mette in moto la sua radicale trasformazione e converte la sua friabilità in lotta, il suo corpo rotto in linguaggio poetico sublimandone l’essenza, tracciando la strada per la guarigione.

    Sono oltre 60 foto di piccolo formato, perlopiù in B/N, scattate in anni di ricerca, allestite come un’opera unica per coglierne la forza d’insieme, distribuite apparentemente senza un ordine. L’artista affida all’osservatore il compito, anzi la responsabilità, del senso di ciò che vede, di cogliere le tracce nascoste nei frammenti di sé che ci offre nei suoi toccanti autoritratti. Sin dalla prima foto, il lavoro di Barbara ti cattura trascinandoti in una vertigine di solitudine e malessere. Per noi che osserviamo, in rigoroso silenzio, sembra quasi una violazione della sua intimità. A mano a mano che sfogliamo il suo diario fotografico però emergono gli indizi che rivelano anche i bagliori di un’opera fatta di mutazioni impercettibili e transitorietà, di graduali progressi e contrapposizioni tra presenza e assenza, identità e cambiamento, luci e ombre.

    Su una parete, all’interno di una nicchia, è collocato un ritratto allo specchio, una sorta di omaggio alla sua prima macchina fotografica, ma anche la testimonianza di una prima importante conquista: vi si può intuire, ma non ancora vedere, il suo volto. I due successivi scatti ci mostrano il suo occhio e poi anche il suo viso che emerge dal buio: un passaggio che rappresenta una vera e propria epifania.

    SECONDA TAPPA> Dall’io al noi | Dall’autoritratto al ritratto

    Per qualche anno la ricerca di Barbara ha interessato esclusivamente il suo privato. Quando decide di mostrare le sue foto, incomincia ad interrogarsi sui confini tra l’Io e l’altro. Allargando lo sguardo su altre donne, dà vita ad un nuovo filone di indagine che la porta ad incontrare la malattia nelle altre. Affiora una nuova timida consapevolezza: la fotografia l’aveva in qualche modo curata e poteva diventare uno strumento per aiutare altre donne in un processo di superamento delle difficoltà generate da varie forme di violenza. L’esperienza dell’arte si trasforma in un atto di resistenza che avvicina profondamente gli esseri umani, aiutandoli a riflettere, stimolandone il pensiero critico.

    Inizia qui la seconda tappa di questa mostra. Al centro della sua ricerca ancora e sempre il corpo: l’arena dove si combattono i disagi più profondi, la tela bianca su cui si imprimono fragilità e paure: desiderio di sparizione, senso di colpa e necessità di controllo, sono il mantra delle persone che hanno sofferto o soffrono di disturbi alimentari.

    Mangiare troppo o non mangiare affatto, ingozzarsi e liberarsi in un ciclo senza sosta, simbolicamente rappresentano la neutralizzazione del dolore; sono atti che hanno un valore anestetico utile per spostare l’attenzione dal caos e la sofferenza che comportano ambienti violenti e abusanti. Questi disturbi non nascono unicamente da traumi, sempre più spesso e inesorabilmente le donne sono vittime di una forma di mimetismo estetico che nasce dal mito della bellezza esteriore. Nella nostra epoca, troppo spesso le donne sono stigmatizzate e discriminate sulla base della forma corporea, del peso e della taglia. L’ossessione dello specchio e dell’autorappresentazione social, hanno poi esacerbato il problema del raggiungimento della perfezione estetica con un impatto devastante sulla salute psicofisica delle donne, soprattutto giovani e giovanissime

    Revenge porn, victim blaming, slut e body shaming, cat calling, ecc. sono termini che oramai fanno parte del nostro linguaggio ed indicano abusi che abbiamo imparato a riconoscere: riguardano l’uso sessualizzato del corpo e vari fenomeni nell’ambito della violenza di genere. Sono forme coercitive che inducono ad una costante sorveglianza del corpo, a vergognarsene ed interiorizzare i pregiudizi basati sull’immagine corporea. Il mito della bellezza è un’arma contro le donne: gli ideali di bellezza sono irreali ed irraggiungibili. Un’ambizione che di fatto produce una costante insoddisfazione e odio per la propria immagine, che diviene teatro di mille ossessioni con derive patologiche gravi come bulimia, anoressia e la dismorfofobia, cioè l’incapacità di valutare in modo oggettivo la propria fisicità. Così, le donne diventano sempre meno sicure di sé e del loro corpo, intrappolate in un costante stato di inadeguatezza, di lacerazione, di ossessione, in una relazione estenuante e distruttiva con il cibo, il cui rifiuto corrisponde sempre più ad un rifiuto della propria persona.

    In questa tappa, troviamo le foto del ciclo “Non conforme”: ritratti di donne perfette nelle loro imperfezioni, colte nell’unicità della loro bellezza naturale. Sono storie ordinarie di donne straordinarie che combattono gli stereotipi e i modelli di una società che frammenta e riassembla i mondi femminili trasformando la donna in un oggetto di consumo. La realtà di queste donne affiora limpida e inarrestabile nell’obiettivo di Barbara aiutandoci a mettere in discussione quella cultura patriarcale e sessista che elabora l’oggettivazione del corpo femminile, per cui le donne dovrebbero esistere innanzitutto attraverso lo sguardo degli altri, in quanto oggetti accoglienti, attraenti, disponibili. I ritratti di Barbara ci forzano a guardare le donne con i loro occhi, come le donne desiderano essere viste; ci raccontano storie di riscatto, di ritrovato amore per se stesse, superamento di solitudini, per creare coscienza sociale ed insegnarci a fare rete per superare l’asimmetria di potere tra i sessi. Molte le foto di gruppo in cui le donne valorizzano le loro ferite offrendosi come sostegno l’una dell’altra: si accettano, si abbracciano, intrecciano simbolicamente le loro mani e i capelli.

    Un monologo a due voci accompagna il pubblico nella visita, sottolineando quel linguaggio sessista, giudicante e manipolatorio che la società usa per stigmatizzare i comportamenti delle donne e controllarle tramite lo strumento dello stereotipo, colpevolizzandole. Da sempre viene loro detto come essere e come non essere, cosa fare e cosa non fare per non essere etichettate, discriminate ed emarginate. Il testo, liberamente ispirato al manifesto femminista Be a lady, they said di Camille Rainville, è scritto ed interpretato da Damiana Marzano e Maria Concetta Borgese.

    TERZA TAPPA> Fiori dalle ferite

    Barbara è anche educatrice ed assistente sociale, con questo lavoro coniuga le sue due grandi passioni: la fotografia e l’ambizione di essere utile agli altri. Per Barbara l’arte può essere un luogo di incontro e rigenerazione, un valido strumento di ricerca per rompere gli schemi, invitare alla riflessione collettiva, innescare processi di cambiamento e contribuire alla trasformazione della società. In particolare, la cultura è strategica per far emergere e prevenire quei fenomeni che provocano discriminazioni ai danni delle donne, ostacolandone il pieno sviluppo della personalità e delle capacità umane.

    Porre fine alla discriminazione tra i sessi e alla violenza contro le donne è anche fra i SDG (Sustainable development goals) dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Attraverso l’uguaglianza di genere e la valorizzazione di un modello di leadership generativa al femminile, si può mettere in atto una rivoluzione rispetto ai classici sistemi di gestione progettati dagli uomini, che hanno mostrato il loro fallimento. Ma non si tratta tanto di aiutare le donne, piuttosto di aiutare il mondo attraverso le donne per adottare nuove strategie di sviluppo, di difesa del pianeta, nuovi paradigmi per la giustizia sociale e la cura dell’altro.

    Con il tempo l’impegno di Barbara diventa militante e il suo gesto artistico si carica di significati politici. Il suo lavoro si arricchisce di una nuova tensione, un anelito di partecipazione e ribellione, sempre più urgente in un mondo che sembra aver smarrito il proprio orizzonte e galleggia come un naufrago sulle proprie macerie. La sua ricerca approda ad un nuovo livello passando dall’immaginazione alla progettualità, dalla riflessione alla costruzione. Ottiene un master in fotografia terapeutica presso NetFo di A.Turchetti ed avvia il progetto “Vite Imperfette” che la vedrà in giro per l’Italia a raccogliere testimonianze di consapevolezza e rinascita. L’artista affida ad una moltitudine di donne, sorelle, amiche e compagne di viaggio, il compito di raccontare la loro personale trasformazione, l’atto d’amore verso se stesse che le ha spinte a mettersi a nudo e condividere la propria esperienza per sostenere il risveglio di altre donne.

    Per questa ultima tappa, sono stati selezionati da Vite Imperfette i ritratti di quattro donne, protagoniste di storie di sopravvivenza riconducibili ad esperienze personali di malattia e guarigione. Donne che hanno subito discriminazioni e pregiudizi, vissuto rifiuto e vergogna, affrontato la solitudine che comporta il trauma della violenza o di una malattia che stravolge il corpo mutilandolo. Forza, coraggio e il desiderio di aiutare altre donne in difficoltà sono i tratti che accomunano le nostre quattro testimoni. Virginia, Martina, Valentina e Santa hanno avuto percorsi di vita molto diversi, tutte hanno con determinazione superato le difficoltà che la vita ha posto sul loro cammino. Hanno combattuto e si sono rimesse in piedi, si sono riappropriate del loro corpo che ora mostrano con fierezza negli straordinari ritratti di Barbara. Le ferite che hanno imparato a curare ora germogliano fiori variopinti: un messaggio di rinascita ed un invito a condividere le proprie esperienze e fare rete tra donne.

    SEMINIAMO PAROLE NUOVE

    Uno dei fenomeni più difficili da individuare, e di cui spesso anche le donne non sono consapevoli, è il sessismo nella lingua, una forma di violenza che si insinua in più ambiti e colpisce con molte modalità, dall’aspetto esteriore alla personalità, con lo scopo di danneggiare l’autostima della persona e posizionarla in una condizione di soggezione e passività. Non si parla solo degli insulti legati alla condotta sessuale delle donne, o agli stereotipi che vogliono le persone di genere femminile più legate alla cura e alle mura domestiche, ma di un linguaggio tossico che porta avanti dei retaggi culturali che esasperano bias e pregiudizi. La normalizzazione di un linguaggio di odio è un problema spesso sottovalutato o sminuito perché è parte di un humus che lo alimenta da secoli, mentre si tratta di una narrativa dannosa legata ad un linguaggio discriminante, spesso anticamera di fenomeni di violenza fisica.

    Anche i media hanno una grande responsabilità nel diffondere e alimentare pregiudizi e stereotipi che riguardano il femminile. Domande apparentemente innocue come “aveva bevuto troppo”, “ma come era vestita?” oppure “l’ha uccisa perché l’amava troppo” lasciano intendere che la colpa della violenza possa essere ascritta alla vittima per un suo comportamento considerato errato, invece che al suo aggressore, modalità queste che sminuiscono l’atto compiuto e rendono più umano il carnefice. La violenza può e deve essere contrastata anche attraverso una consapevolezza del potere delle parole e di quanto siano un mezzo fondamentale per trasmettere valori e codici culturali positivi e non discriminanti. Educare alla differenza linguistica significa lavorare per costruire un senso di inclusione e uguaglianza in una convivenza delle differenze.

    La mostra propone ai visitatori una sorta di gioco sul linguaggio, un invito a seminare parole nuove che contribuiscano a formare la visione di un mondo più consapevole e meno discriminatorio, costruire una società che rispetti la dignità di ogni persona, creare un “capitale di parole” sempre più elaborato e inclusivo.

    Coltivare la lingua del futuro come un giardino variopinto e multiforme per accogliere realtà diversificate, cangianti: accogliere forme forestiere e, laddove ancora non c’è, creare, inventare, moltiplicare. Ideare nuovi termini come fossero abiti da indossare e sfoggiare con fierezza per sfidare la realtà e ribaltarla, non è solo un atto linguistico, di creazione, ma anche una rivoluzione sociale. Un atto di trasformazione del reale. Perché immaginare una lingua che non ci faccia più male è un’avventura collettiva per le donne, per gli uomini e per ogni altra identità di genere, sessualità e ruolo sociale, nel rispetto di tutte le diversità.