dal 19.06.2024 all'11.07.2024
Spazio Europa
Cinque grandi fotografi ad ispirarne uno
Ogni artista ha dentro qualcosa di chi lo ha preceduto. Sono cinque le citazioni di alcuni grandi fotografi che in qualche modo hanno ispiratoGiulio D'ERCOLE–documentarista e fotografo professionista con grande esperienza in Africa ed altri Paesi, docente di Fotografia all'Università Istituto Pantheon di Roma –nel suo lavoro. La prima è diAnsel Adams, "Nell'atto di fotografare porti tutte le immagini che hai visto, la musica che hai ascoltato, le persone che hai amato"; la seconda diRobert Frank," C'è una cosa che deve contenere la fotografia: l'umanità del momento"; la terza di Edward Steichen, "Un ritratto non è fatto nella macchina fotografica, ma su entrambi i lati di essa"; la quarta diRobert Capa: "Se la tua fotografia non è buona abbastanza è perché non eri abbastanza vicino" e infine la quinta, diHenri Cartier-Bresson,"Fare una fotografia vuol dire allineare la testa, l'occhio e il cuore. È un modo di vivere".
Lungo queste direttrici, soprattutto, D'Ercole ha messo a punto lasuafotografia sui numerosi temi su cui si è soffermato il suo sguardoumano. Da ultimo, gli anziani, nellamostra fotografica "Invisibili", promossa dalla Rappresentanza della Commissione europea in Italia e in corso presso Spazio Europa, in Via Quattro Novembre 149 a Roma, fino all'11 luglio. L'esposizione si concentra sulla marginalizzazione che molti anziani vivono nelle città: le venti foto in mostra li colgono nei loro gesti quotidiani svelati con una cruda ma poetica visione.
Testa, occhio, cuore
La testa.Rientrato in Italia dopo i numerosi reportage in quattordici Paesi del mondo e dodici anni in Africa,Giulio D'Ercoleha colto un aspetto particolare della realtà italiana. Nelle nostre occidentali città dell'opulenza, tante situazioni di emergenza e marginalizzazione ignorate, tra cui la condizione degli anziani. Persone su cui si lascia scivolare lo sguardo senza guardarle davvero, come se fossero trasparenti, invisibili, appunto. Da un punto di vista umano – dice il fotografo nel suo intervento durante l'inaugurazione del 19 giugno scorso – è quasi naturale: a nessuno piace la solitudine. "Con questo progetto, realizzato grazie ad un endorsement autorevole e prestigioso come quello della Rappresentanza della Commissione Europea in Italia, l'obiettivo è quello di sensibilizzare su una condizione in cui potremmo trovarci tutti, nessuno escluso, un domani, ed aumentare la consapevolezza su un tema che è sociale, con risvolti anche economici. Ci sono sempre meno nascite e sempre più anziani, l'età media della nostra popolazione è di 48 anni, in Africa di 18. Rifiutandoci di posare lo sguardo su questa fascia enorme di popolazione stiamo rendendo invisibili noi stessi".
L'occhio. L'occhio – diceD'Ercole– è lo stile. Come noi vediamo le cose. La tecnica fotografica utilizzata per le foto di questa mostra consiste nello scattare senza che il soggetto se ne renda conto. Foto "rubate", foto non posate in cui cogliere "l'attimo decisivo" descritto da Cartier-Bresson, l'essenza più profonda delle persone. Ogni foto racconta una storia. La preferita tra queste storie, per un errore nell'allestimento, non è presente tra le 20 foto in mostra. Lo scatto ritraeva in diversi momenti un uomo con il suo cane, laddove l'uomo e l'animale, come neuroni-specchio, si muovevano all'unisono in una simbiosi assoluta, ma che raccontava anche tanta solitudine. Così come quella, invece presente in mostra, che ritrae invece una signora col suo cane, una foto triste, struggente, che trasmette, come ha detto un visitatore, un senso di abbandono più ancora che di solitudine. Un'altra foto, scattata nel 2016, profondamente radicata nel cuore del fotografo, è il primo piano di un uomo "di una volta", seduto in un autobus, con la sua vecchia radiolina a transistor, tenuta assieme da un elastico, mentre ascolta la radiocronaca di una partita di calcio, lo sguardo perso al di là del vetro.
Il cuore."Le fotografie– spiegaD'Ercole–'avvengono' da tutte e due i lati della macchina fotografica e ciascuna di esse contiene dento il mondo del fotografo. Non coscientemente, forse, ma a livello subliminale senz'altro. Nell'ordinare le venti fotografie selezionate per questa mostra 'ho riconosciuto' tutti i motivi profondi che mi hanno indotto a scattarle. Noi cristallizziamo la figura di un anziano nella sua apparenza attuale senza riuscire a vedere tutte le età, gli anni, i momenti precedenti della sua vita. Siamo incapaci di cogliere la stratificazione della sua esistenza. E così facendo, in qualche modo, perdiamo lo spessore di quella vita, riassumendola soltanto nel qui ed ora. Come diceva mia madre, 'il brutto dell'invecchiare è che si diventa invisibili, non più oggetti di desiderio o anche solo di curiosità'. Qui ritrovo lo scopo del lavoro creativo del fotografo: andare nelle pieghe più intime delle persone, mettendosi sul loro stesso piano, alla stessa altezza di sguardo. Come in queste foto, mai scattate dall'alto verso il basso o dal basso verso l'alto. Nei venti scatti che ho scelto, poi, ritraggo persone sole. E quando si è soli non si parla. E qui ritrovo mio padre, che invecchiando calava nel silenzio, silenziato dalla vita. Da figlio è una cosa che evidentemente mi ha molto colpito. Tutto questo, che fa parte del mio mondo, è in queste 20 foto".
Un'emergenza europea
Ad aprire l'inaugurazione della mostraMassimo PRONIO, Responsabile Comunicazione della Rappresentanza in Italia della Commissione europea. "L'Unione europea– ha detto –è conscia del problema rappresentato dall'invecchiamento della popolazione e dai nuovi stili di vita che favoriscono l'emarginazione dei più anziani e lo affronta con politiche mirate a migliorare la loro qualità di vita e con azioni di sensibilizzazione. La mostra di Giulio D'Ercole parla con la sensibilità, ma anche la passione, che gli sono proprie, di questo tema, e ci è sembrata per queste ragioni rientrare perfettamente nell'alveo di queste azioni".Pronio ha voluto quindi ringraziarlo e con lui lo staff che ha contribuito con competenza e dedizione all'allestimento e alla comunicazione della mostra:Ritalba Mazzara, Assistente comunicazione (grandi eventi);Manuela Sessa, Assistente comunicazione;Simona Zeppa, Team comunicazione eLorenzo Massa, Segreteria organizzativa di Spazio Europa.
Intervista a Giulio D’Ercole
di Diana Daneluz – 15/06/2024
Dal 19 giugno a Roma a Spazio Europa la mostra fotografica “Invisibili” di Giulio D’Ercole, in corso fino all’11 luglio, con il Patrocinio della Commissione Europea.
Giulio D’Ercole, fotografo professionista con alle spalle oltre venti anni di reportages per le agenzie delle Nazioni Unite e le ONG internazionali, numerose mostre e anni di workshop turistici esperienziali di grande successo a Roma e in Italia. Questa mostra apre in un momento particolarmente bello della tua carriera, a valle di recenti importanti riconoscimenti. È così?
Sì, è così. Dopo oltre 18 anni di vita all’estero, sei anni a New York come producer televisivo e dodici in Kenya, il ritorno in Italia ha dato vita a un nuovo cammino professionale, che va dai workshop fotografici itineranti all’insegnamento dell’arte e della tecnica fotografica, presso l’università Istituto Pantheon – Technology & Design. In entrambi i casi, ho scoperto che l’insegnamento mi diverte moltissimo, probabilmente perché la fotografia è lentamente diventata la mia passione.
Cosa ha significato per te il coinvolgimento della Commissione Europea – la mostra sarà introdotta proprio da Massimo Pronio, responsabile della comunicazione della Rappresentanza in Italia della Commissione Europea – in questa esposizione e quanto si lega, in qualche modo, all’internazionalità del tuo lavoro?
Il patrocinio della Commissione europea, grazie alla squisita e appassionata collaborazione di Massimo Pronio, che ha voluto questa mostra e che ringrazio infinitamente per questo, è stato non solo una graditissima sorpresa, ma anche una conferma del potenziale impatto e del valore del mio lavoro. Perciò è innegabile che questo appoggio istituzionale riveste veramente un valore molto alto per me. Riguardo l’internazionalità del mio background professionale ed esistenziale, diciamo che, come tu hai giustamente evidenziato, questa mostra si colloca all’interno di un percorso che si è sviluppato nel corso del tempo, e in qualche modo “Invisibili” torna su quei temi sociali che ho spesso affrontato lavorando per tanti anni come fotografo e documentarista nell’Africa Sub Sahariana. Solo che questa volta l’obbiettivo viene rivolto a una tematica molto italiana e non più ai Millennium e Sustainable Development Goals dei Paesi in via di sviluppo. Ma probabilmente noi stessi, civiltà dell’opulenza, siamo in un certo senso in un declino identitario, sociale e culturale.
INVISIBILI. Un tema importante, quello della marginalizzazione degli anziani oggi, ma anche un tema molto difficile da trattare senza banalizzarlo. Qual è la chiave che hai scelto?
Un tema fondamentale da tanti punti di vista. Ovviamente il primo è quello più strettamente umano, ed io mi ritengo un fotografo umanista, tanto che sarebbe bello un giorno essere ricordato come il George Simenon della fotografia. C’è poi quello sociale, culturale ed economico. Oggi, in un’Italia a crescita demografica negativa, dove l’età media è di 48 anni, a paragone di quella africana che è di 18, a parte il discorso di chi pagherà le pensioni e il welfare, dimenticarsi degli anziani vuol dire sostanzialmente dimenticarsi di noi stessi e creare un gap incolmabile con delle generazioni sempre più esigue, ma anche sempre più distanti dai genitori e dai nonni. Lontane ere geologiche da questi ultimi per motivi collegati anche al progresso esponenziale della tecnologia. Parleremo lingue ed avremo immaginari sempre più diversi. Non è una bella prospettiva. Ma tornando alla tua domanda, i “gruppi” degli invisibili oggi sono ancora tanti e tra questi tanti ci sono, paradossalmente, anche i nostri parenti, persone che abbiamo in casa o dall’altra parte del pianerottolo, o in fila al mercato…. Visibilissim i, ma… trasparenti. Mi chiedi quale chiave ho scelto per non banalizzare questo tema. Ce ne sono due di chiavi, una è quella emotiva e psicologica, che nasce dal di dentro e che risponde al vissuto personale, e poi naturalmente c’è quella stilistica.
Partendo dalla seconda, ho scelto il genere fotografico della street photography, ovvero scatti di scene reali di vita senza interferire con esse, essere al centro della situazione per poterla cogliere al meglio. Una delle frasi più famose di Robert Capa è “se la tua foto non è abbastanza buona è perché tu non eri abbastanza vicino”, dove per vicinanza si intende una prossimità sia fisica sia di empatia. Perciò questi venti scatti sono dei candid shot, dei fotogrammi rubati alla vita, ma senza influenzarla attraverso la presenza del fotografarlo… magari, anzi, è più lui ad esserne influenzato.
La chiave emotiva, quella psicologica, è invece da rintracciarsi nel vissuto personale e più precisamente in tre cose distinte: ho sempre creduto che quando guardiamo qualcuno, per la prima volta soprattutto, lo cristallizziamo nel momento preciso del presente di quello sguardo e ci dimentichiamo completamente del passato di quella persona, al più cerchiamo di immaginarcela, spesso per motivi utilitaristici, nel suo futuro. Questo è particolarmente vero per gli anziani. Quando guardiamo un uomo col bastone ci scordiamo che ha avuto cinque e dodici e diciotto anni e che a quelle età correva giù per i viali o su un campo di calcio. Se vediamo una donna anziana con i capelli bianchi e le mani nodose non riusciamo a vederla mentre ballava a una festa o che prendeva il sole su una spiaggia.
A questo si collega una frase che mi disse mia madre quando non aveva neanche settant’anni. Mi disse, “Sai Giulio il brutto del diventare vecchi è che si diventa invisibili”. Allora, oltre venti anni fa, intuii ciò che voleva dire, ma posi l’accento su un suo voler essere ancora desiderata, in modo anche leggermente civettuolo. Ora, a distanza di due decadi mi rendo conto sulla mia pelle, come si diceva una volta, non solo che è vero, ma che non c’è nessuna civetteria né tantomeno leggerezza in quella frase.
E infine mio padre, un uomo che da giovane era estroverso, flamboyant, a volte anche sopra le righe, e poi con la senilità è diventato sempre più silenzioso, sempre più distante. Il mondo sembrava essersi dimenticato di lui e molto spesso ho visto il suo sguardo perso nel vuoto, chissà dove, forse a quelle corse di cui parlavo prima.
Insomma, le persone non sono quello che vediamo in un’istante, ma la somma infinita di tutti gli istanti che hanno vissuto.
Io spero che queste venti foto, che sì sono venti istanti cristallizzati, aiutino se non altro a immaginare tutto quello che c’è dietro queste venti persone, questi venti esseri umani.
Ansel Adams disse che “Non fai solo una fotografia con una macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai sentito, e le persone che hai amato.
20 le fotografie esposte. Oltre ad essere l’autore delle foto hai curato in prima persona l’allestimento della mostra?
Sì, nel senso che insieme a Francesco Cardini, della ditta Fiammeri, che ha realizzato a mano le cornici delle foto, stampate da Marco Bugionovi di Fotogramma 24, abbiamo studiato un percorso abbastanza preciso, sia dal punto di vista tematico che emotivo e cromatico attraverso cui si dipana la mostra, creando quattro “stanze” aperte dove sono state appese le foto.
La condizione umana sempre al centro del tuo obiettivo. Anche nelle tue precedenti foto scattate in diversi 14 Paesi del mondo. Eppure ami anche i paesaggi urbani e naturali, come dimostra il tuo lavoro nei workshop fotografici. È così?
Sì, è così. Il mio obiettivo principale è stato e continua a essere l’essere umano. È in lui che mi rispecchio e in cui riesco a immedesimarmi maggiormente, anche se negli ultimi anni ho anche cominciato a confrontarmi con la fotografia urbana e di paesaggio. Questo sia perché è di fatto la fotografia che più affronto nei miei workshop fotografici in varie regioni italiane, sia perché la fotografia è in qualche modo una disciplina, a volte un’Arte, che si avvicina o che porta alla meditazione, ovvero a quello stato mentale in cui il tempo scompare e si rimane in dialogo con noi stessi e con ciò che ci sta intorno, in una forma di contemplazione attenta, aperta, profonda, possibilmente non giudicante del mondo. Dove però non giudicante non è affatto sinonimo di distante, al contrario. L’empatia, almeno per me, è sempre il cuore di ogni fotografia. Poi il fatto che dopo tanto girovagare, da due anni mi sono trasferito a Todi, in Umbria, cuore verde d’Italia, deve aver anche accelerato un processo che era in atto.
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Giulio D’Ercole è un documentarista e fotografo nato a Roma, nel 1961. Laureatosi in Lettere e Filosofia, ha un background in Teatro, Radio e Televisione. Studia sceneggiatura alla UCLA (1994) e Broadcasting alla NYU (1997). Nel 1997 si trasferisce a New York dove lavora per la RAI Corporation e poi, nel 2003, in Kenya, dove lavora in un progetto di comunicazione dell'UNESCO in Somalia. Contemporaneamente fonda Canvas Africa Productions, producendo strategie di comunicazione, documentari e reportage fotografici su progetti umanitari delle agenzie delle Nazioni Unite e dalle ONG internazionali. Le fotografie scattate in quattordici Paesi hanno dato vita a mostre tenutesi in Istituti di Cultura, Musei, Ambasciate, Gallerie e alla Biennale di Venezia.Nel 2014, Giulio torna a Roma, dove fonda Rome Photo Fun Tours e Italy Photo Fun Tours, con cui offre workshop fotografici a coloro che desiderano scoprire e catturare l’arte, la natura, la storia e la vita di Roma e dell’Italia, attraverso l’arte e la tecnica della fotografia. Dal 2022, insegna Fotografia all’Università Istituto Pantheon di Roma.
Diana Daneluz è giornalista pubblicista. Socia professionista FERPI-Federazione Relazioni Pubbliche Italiana si occupa di media relations e comunicazione.