dal 14.06.2024 al 14.09.2024
Assemblea Testaccio
Creare sostanze, giocare a dadi col tempo, provare a miscelare gli elementi, perdersi nel suono sordo dello scorrere dell’acqua, accettare l’imprevisto come fase creativa, annusare profumi nuovi, carezzare la carta, attendere ad occhi chiusi, sbirciare e rimanere accecati da una luce troppo soffusa per sentirne dolore, parlare da soli per non ascoltarsi, in un intimo quanto inutile dialogo tra sordi.
Così è nato (/ Pas’tis /), involontariamente, nella sua accezione nativa, per indossare l’abito formale di nuovo segmento / capitolo dedicato alle tecniche fotografiche antiche e alla stampa in camera oscura.
Questa redazione espositiva, oltre a rinnovare la mia volontà nel voler scoprire quali sostanze possono esser luce e diventare materia, tende ad esaltare la cura e la dedizione di alcune forme artigianali che, a mio avviso, dovrebbero essere protette e custodite, al contempo incentivate e valorizzate. Una profonda tradizione da possedere, respirare e tramandare, per non smarrire e svellere la naturale bellezza possibile.
Nello specifico il lavoro prende forma su supporti NON fotografici debitamente pretrattati, emulsionati e successivamente sviluppati in scala di grigi.
La materia che ospita il cammino per immagini è composta da lastre di alluminio e Charta Bambagina. Un prodotto raffinato nelle cartiere italiane già nel Medioevo; inizialmente scelta per la scrittura, verrà utilizzata per la stampa e rilegata per la diffusione in volumi. Lavorata a mano da maestri cartai, lasciata asciugare nei telai rispettando, ora come allora, modi e tempi imposti dagli antichi procedimenti tramandati nei secoli, quella da me scelta, è ruvida e di grammatura grossa.
Non nascondo che in principio era mia intenzione, come gran parte della mia produzione, tenere le fotografie lontano da sguardi che non fossero il mio.
Per rispettare l’originale processo creativo, ma soprattutto in coerenza col pensiero fondante, è pian piano diventato palese che “probabilmente” la sua ricaduta sarebbe stata -invece- l’essere fruibile, e perché no, nella forma espressiva unica e assoluta, ovvero, una mostra personale.
In definitiva ho maturato l’idea e deciso di condividere le opere costruendo un percorso che rimarrà esposto e visitabile presso i locali di Assemblea Testaccio, dal 14 Giugno 2024, fino a quando ne avremo voglia.
Ivan Festa
Intervista di Diana Daneluz a Ivan Festa pubblicata il 21.07.2024 su VivereRoma
La fotografia di Ivan Festa, inarrestabile flusso tra notte e giorno.
In mostra ad Assemblea Testaccio a Roma, In un’intervista, i binari della sua arte in cammino.
Come sempre, lo spazio romano Assemblea Testaccio, di Monica Polledri, ricerca ed espone qualcosa di prezioso. In questo caso la raffinatezza delle fotografie di Ivan Festa, ospitate in via Alessandro Volta 22 fino a settembre, risiede nell’artigianalità della procedura di stampa e nell’altissimo valore dei supporti delle foto, lastre di alluminio e Charta Bambagina, quest’ultima prodotta nelle cartiere italiane fin dal Medioevo e ancora oggi realizzata ad Amalfi con lo stesso antico metodo dei primi maestri cartai nel rispetto dei loro tempi di asciugatura su telai e modi. E nella bellezza degli scatti, naturalmente.
A margine della mostra, la nostra conversazione a distanza, un “dialogo immaginario” lo chiama Ivan Festa.
Hai chiamato Pas’tis questa mostra, come il liquore al profumo di anice e liquirizia nato a Marsiglia. Perché? Che sostanze, quali materie, hai mescolato insieme per questa esposizione romana?
L’arte del titolo è una materia che mi ha sempre affascinato, cui ho riservato sempre una particolare importanza per la creazione dell’opera più che come tentativo di descriverla. In parte vecchio retaggio, in parte eredità degli studi passati, tracima spesso in campi non direttamente di pertinenza. Ho amato e amo Sterne e Pirandello e un saggio di Giancarlo Mazzacurati si interroga e descrive con grande dovizia il processo delle soglie paratestuali di Gèrard Genette, con cui gli umoristi si sono confrontati nelle varie epoche. In fotografia questo processo puramente letterario lo integro in tutti i miei lavori.
Il titolo per me non deve descrivere, non deve attrezzare la fantasia dell’astante, non deve aiutare. È come un di più per amore dell’arte, completa e diventa parte della costruzione per immagini. Appunto tracima il proprio argine da sempre imposto.
Gli umoristi facevano e fanno questo, basta notare che non utilizzo nemmeno le foto presenti nella mostra per la locandina per comprendere quale ruolo intimo rivesta il titolo nella creazione del progetto di un’esposizione o di un libro fotografico.
Che rapporto ha con la luce un fotografo che scatta esclusivamente di notte?
La notte offre infinite opportunità, è una soglia a parte in cui devi rischiare per viverla senza riserve. La luce è sempre presente, ed è solo per un nostro limite che tendiamo a quantificarla e distinguerla in momenti della giornata, dandole addirittura un valore cognitivo, o numerico. Molti hanno creduto e credono di determinarne financo le proprietà. L’oscurità regala i colori più vividi che io conosca, cosa che per i molti non sarebbe nemmeno possibile. Ora dovrei parlare della teoria dei colori di Goethe, che utilizzo per le mie creazioni, ma l’importante, il necessario invece, è che amo perdermi, immergermi nel nero silenzio, essere presente in quel vivo spazio-tempo, sentirmi completamente protetto dall’assenza di confini visivi. Attraversare il vuoto che reclama di essere raccontato. Il resto poi viene da sé e le foto hanno il brutto vizio di non mentire, hanno la capacità di comunicare valicando la nostra limitata visione, la nostra illegittima scelta. Parafrasando Brassaï, altro nottambulo, “la notte fornisce suggerimenti, non rivela mai le cose completamente”. Allora devi sommare al tuo istinto la tua capacità di raccontare, se hai l’urgenza, la voglia o intendi raccontare.
Per i tuoi scatti usi una macchina digitale. Per lo sviluppo, invece, tecniche fotografiche antiche e stampa in camera oscura. Come sei arrivato a questa mescola di innovazione e tradizione?
Il digitale risulta comodo in termini di possibilità, elasticità, resa e facilità di archiviazione… Questo consente di “manipolare” e costruire il negativo facendolo aderire alle mie scelte, così mi riservo la massima libertà in fase di composizione dell’immagine e di costruzione del progetto, compresa la scelta del formato, dei materiali, su cui ho immaginato di incidere la luce.
Tieni presente che amo la pittura e le arti figurative, ho una certa predilezione per le stampe giapponesi, dove innovazione e tradizione convivono da millenni. Qui materia, immagine e manualità si fondono e sono a servizio dell’opera, il ciclo soggetto (fotografia), calco (negativo), inchiostro (sviluppo) in parte ricalca il processo quasi artigianale che ho utilizzato per ultimare le stampe.
I soggetti di questo progetto non sono stampati su supporti fotografici, ma su lastre di alluminio e su carta ruvida di grammatura grossa, pretrattata ed emulsionata, sviluppati in un secondo momento su scale di grigi. Il risultato è molto elegante. Ma puoi spiegare quello che sembra un lungo e laborioso procedimento? E cosa ti sembra regali in più alle tue opere?
Per ovvie ragioni non fornirò tutti i dettagli, ma sommariamente e in ordine sparso posso dire cosa viene fatto. Innanzitutto si devono pretrattare i supporti per permettere di ospitare l’emulsione; in caso di materiali ferrosi si deve anche prevenire l’ossidazione, che in qualche caso potrebbe anche essere una scelta artistica, se non si intende utilizzare il collodio umido, ma questa è un’altra cosa.
Più che la procedura o la tecnica, però, il mio modo di intervenire sulla stampa parte innanzitutto dalla scelta della materia su cui sviluppare ed ha una rilevanza filologica. In sostanza deve avere un ruolo di senso. L’ho fatto in occasione di tutte le mostre (Refuse percorso di carta, Luminol carta di riso, etc. etc.). Scattare, poi, immaginando la resa sulla superficie. E poi anche altro, la scelta della cornice, il colore o i colori della stessa, la dimensione, la decisione se utilizzarla o meno con vetro, la posizione dell’immagine sul supporto, la costruzione del design per la parete. E naturalmente la sequenza delle immagini…e potrei proseguire.
Ci sono, poi, altri aspetti. Prendiamo il caso di chi stampa l’immagine di una foglia sulla foglia ritratta. Magari vuole sottrarre il valore dell’immagine e intende comunicare la caducità o l’impermanenza della vita o delle cose affidandola al tempo che la consumerà fino a farla svanire.
Ecco, qualcosa di simile interviene nelle mie scelte e la materia è destinata a rivelarlo.
Credo questo assolva anche il valore della mia ossessiva ricerca della bellezza, sottraendola alla vanità.
Alberi, rami, foglie, natura. Il bianco parla, da queste immagini, definisce, tira fuori senso o, ad ogni successivo sguardo, un senso diverso. Era questa la tua intenzione?
Sono contento di essere riuscito a trasmettere il senso dell’opera! Col nesso del cammino. Ti darei uno spunto di riflessione anche su alcuni dei soggetti in mostra. Dante, nel Canto XIII dell’Inferno, nel raccogliere un ramoscello viene raggelato da un grido umano emesso dal tronco da cui l’aveva staccato. “Perché mi schiante? irrompe, seguito dal sangue che fuoriesce dal punto reciso. Poi incontra Pier Delle Vigne: “Non fronda verde, ma di color fosco;/ non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti;( non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco./Allor porsi la mano un poco avante/ e colsi un ramicel da un gran pruno;/ e ’l tronco suo gridò: “Perché mi schiante?”./ Da che fatto fu poi di sangue bruno,/ ricominciò a dir: “Perché mi scerpi?/ non hai tu spirto di pietade alcuno?/ Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”.
Come vedi ci si può perdere anche nel mondo che immagini e costruisci ossessivamente inoltrandoti nelle sue profondità.
Cosa c’è a monte del percorso creativo che ti guida durante un progetto artistico? Qual è la filosofia, il pensiero fondante, del tuo essere creativo?
Pochi termini e nessuna certezza. Sono figlio di un Novecento da cui sento di dover sottrarre in modo costante e sotterraneo. Non intendo oppormi, forse alla fine si rivelerà anche ai miei occhi.
Non solo fotografia, nella tua vita artistica il teatro riveste un posto importante, che tu occupi come attore, ma anche come autore e regista. Cos’è per te il teatro? E che rapporto ha con il pubblico un artista che sceglie di esprimersi dal palco soprattutto in monologhi?
Solo nell’oscurità senza confini, solo nella gabbia della tortura per raccontare o evocare vicende. In teatro come nella fotografia utilizzo le ombre, racconto storie irreali, do forma all’ignoto e ai fantasmi, compio riti e messe, parlo di altri luoghi, da un luogo altro.
In fondo è l’unico modo per credere di non morire.
Il teatro però, come anche la fotografia, è anche un gioco. Un gioco di ruolo, un gioco con la materia, umana e non, un gioco, in definitiva, con la vita. Ti diverti di più a giocare con il teatro o con la fotografia?
È sempre lo stesso gioco, che non basta a sé stesso e a me, può cambiare forma, modalità espressiva, il soggetto, ma è sempre la stessa storia che necessita di trovare un territorio adeguato, l’alfabeto espressivo che non sempre la fotografia o altro riesce a contenere.
È un ciclo necessario, che spero resti inviolabile e mie e alle altrui scelte, inarrestabile flusso che detta i miei giorni.