dal 28.05.2024 al 21.06.2024
Laboratorio Fotosciamanna
ASA Project ha il piacere di invitarla alla mostra fotografica di Ezio Gianni Murzi, medico, fotografo e appassionato narratore. In gioventù ha lavorato in Mozambico 1977-1981, dove vi è tornato recentemente per documentare le strategie di successo nella lotta contro la tubercolosi e l'HIV/AIDS. Nel 1988, dopo un periodo presso il Ministero degli esteri italiano come consigliere tecnico, è entrato all'UNICEF, e per 20 anni successivi è stato assegnato in paesi dell'Europa orientale, Medio Oriente, Africa meridionale, occidentale e centrale, India e Stati Uniti.
"Questa è la storia di una esperienza che definisce una vita. Questa è una storia di ingenuità, resistenza, devozione e amore. Questo è il racconto dei miei trascorsi come medico in prima linea in Mozambico e delle differenze del sistema sanitario attraverso più di 40 anni di storia. È anche e sopratutto la storia di un cambiamento sistemico messo in atto dalle Figlie della Carità di San Vincenzo de' Paoli a Chókwè per affrontare adeguatamente la pandemia da HIV/AIDS. Sin dai primi anni '90 le suore hanno lavorato instancabilmente dandosi le strutture e gli strumenti più recenti nonché mettendo in atto una strategia che va oltre le mura degli ospedali e raggiunge in profondità le comunità".
Ezio Gianni Murzi
Alla fine degli anni '70, giovanissimo, ti sei ritrovato catapultato in una esperienza difficile e straordinaria come quella dell'ospedale di Chókwè in Mozambico. È stata questa vicenda eccezionale a spingerti a fare tante fotografie e quindi in un certo senso a farti diventare un fotografo?
Fotografavo già da tempo, ma quando cominciai a lavorare in Mozambico decisi di documentare quello che vedevo. Le lenti dell'obiettivo mi aiutavano a vedere la realtà in maniera impersonale. L'emotività di quanto osservavo si scaricava nell'inquadratura, uno stacco necessario in Mozambico dove tutto era altamente emotivo. Presi la decisione di partire mentre mi trovavo a Sassetta, un comune di 600 anime in provincia di Livorno, dove lavoravo da un anno e mezzo come medico condotto, oggi lo definiremmo medico di base, quando il Professor Silvio Pampiglione, che era molto amico del partito al potere in Mozambico, mi chiamò per chiedermi di far parte del suo gruppo di lavoro e se volessi insegnare medicina di primo livello e della comunità all'università di Maputo in Mozambico. Dissi di sì senza esitazioni. La notizia causò il classico fulmine a ciel sereno per i miei genitori, parenti e amici. Avevo alle spalle sette anni di pratica medica e chirurgica, avendone passati cinque in ortopedia e traumatologia all'ospedale di Santo Spirito in Sassia a Roma. Mi sentivo pronto. Ma mai mi sarei immaginato cosa sarebbe accaduto e cosa avrei trovato. Arrivato a Maputo fui invitato perentoriamente ad incontrare un direttore non meglio specificato al Ministero della Salute la sera stessa del mio arrivo. Grande fu la mia sorpresa quando fui introdotto nell'ufficio del Ministro della Sanità del Mozambico in persona, Dottor Hélder Martins, che mi disse: "Ho letto il suo curriculum. Lei non insegnerà a Maputo. Ho deciso di mandarla a Chókwè, capoluogo del distretto del Limpopo, come direttore dell'ospedale e del distretto sanitario".
Il messaggio era chiaro e non lasciava spazio a dubbi o alla discussione. Quando arrivai a Chókwè, scoprii che la realtà era al di là di qualsiasi immaginazione. Un'epidemia di morbillo associata alla carenza di vitamina A stava uccidendo e accecando i bambini sotto lo sguardo spesso indifferente delle infermiere e delle suore locali. Era come se la vita non avesse senso. Inoltre, gli spazi non erano usati come previsto dall'architetto che li aveva progettati e i flussi di lavoro erano complicati o inesistenti. Una parte cruciale dell'ospedale, il blocco delle sale operatorie, era incompiuta. Le stanze nei reparti erano piene di pazienti, ma la loro diagnosi non era formulata. L'assistenza ostetrica era minima e la mortalità materna era alta. La chirurgia era limitata all'appendicite e al parto cesareo, operazioni eseguite da un tecnico della Guinea Conakry in una piccola stanza che si apriva direttamente su un corridoio senza filtri. Mi misi al lavoro, a organizzare le routine e i flussi di lavoro settimanali, inclusa la chirurgia di elezione. Due persone diventarono miei collaboratori stretti e mi aiutarono grandemente: Suor Maddalena e l'infermiere Felipe.
Il tuo lavoro di medico ti ha portato in giro per il mondo, perché hai voluto rendere omaggio proprio a questa esperienza in Mozambico per la tua mostra personale?
L'esperienza e la responsabilità di quegli anni mi segnarono fortemente per il loro impatto emotivo, ma soprattutto per la capacità del personale di agire al di là del loro dovere. Per quanto mi riguarda, sono stato sotto le bombe a Baghdad durante la prima guerra del Golfo del 1991. Ma nulla è paragonabile all'esperienza del Mozambico e degli episodi di guerra del 1979. Furono ricoverati nel mio ospedale più di trecento feriti in meno di 24 ore. Io ero l'unico medico. Stavo in camera operatoria 16 e a volte 18 ore, poi dormivo due o tre ore per ricominciare. Nelle prime ore i corridoi erano pieni di feriti con ferite gravi da arma da fuoco, seguiti nei giorni successivi da gangrene e ferite aperte. L'ospedale riusciva a ricoverare 120 pazienti circa, per cui molti feriti erano sdraiati a terra, su giacigli di emergenza, chiedendo e implorando attenzione. Dovevo decidere al momento chi operare e chi lasciare in attesa, forse di morire. Quelle erano decisioni agonizzanti, prese con poco supporto diagnostico e senza colleghi per condividere l'onere. A tutt'oggi vedo ancora davanti a me quei visi e quegli occhi.
Al di là del valore della memoria, Chókwè è un lavoro sul cambiamento e sulla crescita attraverso la collaborazione e la solidarietà. Potendo scegliere liberamente, dove ti piacerebbe che venisse proposto e raccontato questo tuo lavoro?
Al Santo Spirito nelle corsie Sistine recentemente restaurate e a Chókwè per il mio legame affettivo e professionale. Ma anche in altre sedi, per esempio dell'Ordine delle Figlie della Carità di San Vincenzo de' Paoli, perché loro sono le fautrici del cambiamento, nonché per il loro lavoro scientifico con il sofisticato laboratorio di analisi e quello sociale nei villaggi con le famiglie affette da HIV, aiutandole spesso economicamente a far crescere i nipoti orfani. Mi piacerebbe che venisse esibita nei locali della Comunità di Sant'Egidio, quest'ultima perché iniziò i nuovi protocolli di trattamento dell'HIV nel 2002, nonché per lo stretto legame che la Comunità ha con il Mozambico.
L'autore
Medico, fotografo e appassionato narratore.
In gioventù ha lavorato in Mozambico 1977-1981, dove vi è tornato recentemente per documentare le strategie di successo nella lotta contro la tubercolosi e l'HIV/AIDS. Nel 1988, dopo un periodo presso il Ministero
degli esteri italiano come consigliere tecnico, è entrato all'UNICEF, e per 20 anni successivi è stato assegnato in paesi dell'Europa orientale, Medio Oriente, Africa meridionale, occidentale e centrale, India e Stati Uniti.