dal 12.11.2023 al 07.01.2024
Libera + soon
Siamo felici di avanzare nella nostra programmazione presentando " a eccetera" mostra fotografica personale di Aminta Pierri.
Un lavoro sulla memoria e la sua frammentazione.
A Eccetera (2017 2021)
Dopo la morte di mia madre, avvenuta nel 2017, le esperienze di impotenza, di accavallamento di memoria e di frammentazione sono diventante per me sovrastanti e imprescindibili e si sono incastonate nella mia pratica artistica già fondata sulla manipolazione del concetto temporale.
Il lavoro di questa installazione è stato fatto dal tempo, principalmente e dall'accumulazione degli eventi della vita, oltre che dal caso che mi ha fatto trovare elementi d'incastro tra senso e forma.
Un vecchio proiettore di famiglia, usurato anch'esso dal tempo e che non riesce a mantenere il fuoco per più di qualche secondo rappresenta l'oggetto trovato cardine grazie al quale il caso ha concretizzato la mia iconografia personale del senso della perdita.
Il dettaglio di un'immagine, pezzo di foto d'archivio, pezzo della gonna di mia madre che diventa impalpabile come il senso di un cosmo.
Una serie di boccette di vernici appartenute a mia madre sono comparse nella mia ricerca dal fondo di una scatola e in mezzo ad alcuni cassetti, dimenticate aperte per circa 30 anni. I colori sono irrimediabilmente alterati, trasformati, si sono impastati mentre tutto succedeva.
Li ho lasciati gocciare su quell'accumulo di immagini che per anni continuavo a conservare e sulle sue foto di ragazza e poi madre per creare tramite queste lacrime colorate e brillanti dei nuovi meccanismi di memoria, dei nuovi simboli creati dal passato e trasformati dal presente unici e alterati come è ogni attimo presente e che diventano il simbolo del superamento del dramma, del pezzo staccato dal tutto.
Aminta Pierri
Particolarmente legata al concetto di calco in quanto matrice, la sua ricerca artistica è incentrata sull'uso del mezzo fotografico in quanto dispositivo di memoria. Come in riferimento ad un gesto che diventi traccia del vuoto sensibile che risiede tra forma e rappresentazione.
L'impronta, così come in un'esplorazione territoriale, servendo a scegliere dove dirigersi più che a simboleggiare un nostalgia è usata per spostare la riflessione su quanto la memoria, sia individuale che sociale, influenzi la percezione di identità.
Scardinando l'idea di serie fotografica come anche di una corrispondenza visiva con qualcosa di classificabile in maniera univoca, l'uso di diversi livelli narrativi e l'introduzione di materiali contrastanti tende alla ricostruzione di un circo minimo di senso, di un luogo che rappresenti una condizione.
Taranto, 1983 - Vive e lavora a Roma.
Dopo gli studi accademici in Comunicazione e traduzione inter-semiotica all'Università di Bari, si forma in fotografia a Roma e Milano seguendo una pratica che interseca l'utilizzo del mezzo con la manipolazione di immagini d'archivio, oggetti quotidiani, poesia ermetica ed orfica - con particolare attenzione alla produzione del poeta Michele Pierri, suo nonno - oltre all'apporto di elementi audio.
Nel 2014 ha pubblicato il lavoro L'unghia del leone con la casa editrice Witty Books di Torino avviando da quel momento una produzione che confluisce, sia nella forma del libro d'arte sia in quella espositiva, nella restituzione di piccoli 'teatri di memoria' nei quali il tempo rappresenta un accadimento e la fotografia uno stato emotivo ed intimo.
Intervista di Eleonora Cerri Pecora
E -Per me è potente parlare con te di questo lavoro, per molte ragioni, che stanno nell’emozione di fare una cosa insieme ma anche nella coincidenza quasi assoluta di diversi piani della nostra ricerca artistica.
La tematica della fine della materia materna e la ricerca delle tracce dell’essenza del materno, la memoria che ti schernisce, inafferrabile quasi più della morte stessa, la ricerca ancora di una una poetica e di una pratica che possano tutto questo. E che aiutino anche a spacchettare - o più semplicemente rendere - in qualche modo - l’andamento e le forme della memoria. Poiché il suo manifestarsi è “inclassificabile, frammentato, si accavalla”, come dici tu. Come a dire è lei che comanda.
Quindi servono strati, o capitoli di indagini; diversi livelli narrativi, che poi messi insieme forse ci danno la soddisfazione di mettere a fuoco qualcosa, per qualche secondo. Mi piacerebbe parlare con te di questa relazione con la memoria, o meglio dei passaggi che in questo lavoro ti hanno fatto sciogliere l’incontro con l’impotenza. Come sei arrivata a conciliare la ricerca di un compimento con la sperimentazione, e ora a posizionarti in un luogo - o non luogo - in cui la ricerca potrebbe non finire mai?
A - Sciogliere l’incontro con l’impotenza…Questa espressione che usi e che scegli con cura porta effettivamente con sé i termini stessi di questo lavoro e direi della mia ricerca in senso più ampio. La memoria, o i suoi frammenti, rappresentano per me un punto di collisione con qualcosa che non posso controllare ma che nel momento in cui si attiva mi permette di spostarmi in luoghi altri. Dico spostarmi e non viaggiare nel tempo perché per me corrisponde ad una sensazione fisica e spaziale più che temporale.
Questo luogo di deragliamento di possibilità e reinterpretazioni è quel luogo che tu indichi e nel quale scelgo di restare a guardare tutte queste scintille luminose in dialogo tra loro e in dialogo con me, e con chi decide di restare a osservare questa sorta di teatro memoriale.
E - Da qui mi viene in mente un’altra cosa di cui vorrei parlare con te, cioé la relazione tra ripetibilità e memoria nella tua ricerca.
Tu scegli la fotografia - come calco e matrice - che sottende la ripetibilità. Ci parli di fotografia come dispositivo di memoria, del tuo bisogno di addentrarti nella memoria, che all’inizio è un bisogno di definizione, di certezze, di fissare e poi come dicevamo lei diventa sempre più sfuggente, frustrante e soprattutto irripetibile.
Tra questo punto doloroso di consapevolezza di irripetibilità, e il momento creativo che ci offri, in cui giochi sia con il viaggio che con il risultato, segui quello che il percorso ti suggerisce, in cui forse tu scopri il tuo segreto creativo, che ruolo ha la fotografia con la sua ripetibilità?
A - Credo che ciò che veramente inseguo sia una corrispondenza, quasi da intendere come scambio epistolare, tra l’accadimento e la materia delle cose.
Mi piace dire di questo lavoro che sia stato il tempo ad agire per me mentre la mia vita scorreva accanto a tutto.
Il mio gesto riguarda in grandissima parte il raccogliere oggetti, immagini e cose poetiche che non intendo come auliche ma al contrario come strettamente materiali e assurde come in una sorta di lista di oggetti-simbolo. Un’immagine che non riesco più a contestualizzare o collocare nel tempo, o una vernice non più utilizzabile, esaurita e quindi privata del suo senso di fabbricazione, tutti questi elementi sfregando tra di loro lavorano semanticamente per creare, dico io, una giostra di simboli.
Giostra perché il gioco, lo scarto interpretativo di ogni immagine-oggetto non è assoluto e chi guarda può attribuire le proprie regole e le proprie connessioni in maniera libera.
In questo scelgo la fotografia come mezzo della mia ricerca, cioè in quanto meccanismo altamente ambiguo e culturalmente complesso che si inserisce, sottile come uno strato di pelle, tra forma e rappresentazione e che ci restituisce il calco di qualcosa che banalmente chiamiamo realtà. Da questo calco però ciò che ne esce, così come avviene per i calchi scultorei, è qualcosa di molto più complesso e singolare di quanto siamo abituati a pensare.
È così che cerco di sfidare la serialità e la sequenzialità fotografica pure incentrandomi su di esse e facendone il cardine sul quale far ruotare tutto.
E - Ho l’impressione che se in larga parte hai cercato e cerchi il senso profondo, hai anche accolto e fai spazio alle coincidenze, che hanno sempre anch’esse un senso, e nel corso della ricerca hanno avuto sempre più spazio.
Mi è venuta questa idea, che questo dettaglio nel titolo, la “e” di eccetera, sia un possibile simbolo che condensa coincidenza e scelta. Che forse possano risiedere in lei la fotografia, il calco, tutte queste e che ogni volta spiegando e spiegandoti ti trovi a ripetere, la possibile congiunzione tra forma e rappresentazione; che sia quella parte in cui è ancora possibile controllare qualcosa, un premessa prima che il cetera si riveli, che tutte le cose che restano rimangano impossibili da ordinare.
Vorrei parlare con te del titolo, come è arrivato e come ha aderito nel tempo a questo progetto in continuo divenire?
A - Senza che io avessi lavorato sulle parole per gradi o scegliendo le più accurate, il titolo A Eccetera è arrivato tutto insieme nel momento in cui ho deciso di colare le vernici ossidate sulle stampe. Ancora non sapevo in che forme, in che quantità e che cosa avrebbero restituito quei colori ma esattamente questo potenziale non ancora sperimentato mi ha dato la possibilità di tenere viva un’apertura anche in un momento nel quale prendevo le scelte finali di tutto il lavoro. L’eccetera rappresenta il mio modo per chiudere questo ipotetico dialogo con la memoria e il dato materno senza usare un punto ma piuttosto una congiunzione.
Nella lista non finita di frammenti di memoria che si alimentano, accendono e inseguono, posso suggerire una continuità oltre che semplicemente indicare una serie.
In questa “e”, esattamente in questa congiunzione risiede il potenziale di dialogo che vorrei far emergere oltre al porre in evidenza il legame con la serialità, e direi ossessività, che spesso avvolge la memoria. Un susseguirsi di ricordi che ne richiamano altri o persino gli stessi ma leggermente diversi, con diversi dettagli, da diversi lati.
La A iniziale, che è iniziale del nome di mia madre come iniziale anche del mio nome oltre che inizio di una serie, ha invece rappresentato una metafora che restasse ambigua e polivalente, nome e simbolo, condensazione di forme e significati.
Una volta scelto questo titolo, come seguendo una guida, il lavoro si è poi sempre più affinato lasciando che accadimento e intenzione si fondessero e, vorrei dire, lasciando che stessero a guardare la serie accadere accettando la sua non-fine non come un ostacolo per la chiusura di un lavoro ma come un luogo nel quale lasciare che la memoria avvenga.
E - Mi sembra che un pò le insegui e un po’ le dissacri, questa signora fotografia e questa signora memoria, perché sei nel calco ma sei nella goccia, e quando tutti questi concorrenti sembrano quasi intralciarti tu allora sparpagli tutto e riesci a non farti bloccare, ci scendi a patti.
Se la memoria è impotenza lo è anche la creazione, e all’impotenza bisogna arrendersi.
Sì, prendo il tubetto di colore che usava mia madre, scaduto, forse unico resto organico proveniente da lei, e lo uso, e lo finisco.
E prendo anche alcune sue immagini, uniche pure quelle, ricordi costretti, memorie che a volte non posso nemmeno provare a ricostruire.
E su queste lascio gocciare il colore, lo spremo, lo colo, e pian piano mi separo, e sono io stessa il vuoto tra forma e rappresentazione, sono tramite nel dolore, che risiede nell’unicità dell’opera finale.